di Marcello De Angelis
AREA - Mensile della Destra Sociale - Settembre 2007
(lettere dal Direttore)
Lo ha detto ormai anche il Papa: il ’68 ha segnato un momento di «crisi della cultura occidentale». Gli analisti del quotidiano (quelli cioè che sanno tutto ciò che accade nel mondo ma solo nel giorno che viene pubblicato dai quotidiani) non hanno potuto fare a meno di notare che anche il nuovo guru della destra europea Nicholas Sarkozy, nel corso della sua campagna elettorale, non ha lesinato critiche ed accuse al pensiero del ’68 ed ai suoi sempiterni portavoce.
L’anno prossimo ricorre il quarantennale del ’68, quindi è plausibile aspettarsi i soliti amarcord, il solito libro di Mario Capanna e le usuali celebrazioni; questa volta però non ci saranno solo voci di plauso, ma anche molte e forti voci di critica. In Italia, come in Francia, l’analisi critica del pacchetto valoriale lanciato dal ’68 e delle sue letali applicazioni sociali, è cominciata già da decenni. Si ricordi, tra l’altro, la raccolta di interventi curata da Gianfranco de Turris e intitolata Miserabili quegli anni (Tarab 1999).
L’onda lunga del Maggio francese è arrivata dunque agli sgoccioli e più per ragioni socioeconomiche che per una vera controffensiva culturale. Siamo abbastanza adulti - politicamente e culturalmente - da essere consapevoli che questo è ciò che accade di norma: purtroppo non è la forza della cultura che cambia gli assetti socio-economici, ma, il più delle volte, la variazione di questi assetti che permette ad una nuova cultura di affermarsi.
Ad accorgersi che “il ’68 è finito” dovrebbero essere per primi i giovani che ancora fanno politica, ma sarebbe una vera iattura se questa consapevolezza portasse semplicemente ad enunciazioni politiche superficiali e manifestazioni occasionali e non poggiasse invece su una comprensione più profonda delle trasformazioni sociali e quindi alla formulazione di un progetto di vera controrivoluzione.
L’attore del ’68, infatti, furono i giovani, categoria anagrafica che da allora è stata acquisita come categoria socioantropologica, come “ceto emergente” o addirittura “classe di riferimento”. I giovani erano tanti e in numero crescente: c’era stato il boom delle nascite, il boom economico e le “masse giovanili”, conclusa l’adolescenza e avvicinandosi all’età in cui si entra nell’età adulta, chiedevano più spazio politico, più opportunità di formazione superiore, maggiore rappresentanza, più opportunità di ingresso nel mondo del lavoro e la possibilità di trasformare la società a propria immagine. La politica giovanile tornò ad essere il motore della protesta e del rinnovamento e continua, almeno nell’immaginario collettivo, ad esserlo.
Ma oggi c’è un problema che non viene preso in adeguata considerazione: i giovani sono una specie in via d’estinzione. Il loro numero scema di anno in anno e proprio come conseguenza dei cambiamenti sociali apportati in tutto l’Occidente dai giovani del ’68: il divorzio, l’aborto, la liberazione sessuale, delle donne, degli omosessuali, il diritto al benessere edonista, il rifiuto dell’etica della responsabilità e del dovere, sono tra le cause della denatalità europea e italiana in particolare. Questo ceto residuale non ha più potere contrattuale o ne ha certo meno di quello dei pensionati, perché in democrazia contano i numeri. Si tratta poi di una “classe” i cui spazi di acceso nel mondo del lavoro vanno sempre più restringendosi e le prospettive di crescita sociale ed economica vanno sempre più a diminuire.
La casta dei sessantottini - questa sì una vera casta, quasi una razza padrona - occupa tutti i posti chiave e in particolare quelli che determinano il senso comune - l’informazione, la comunicazione e la pubblicità - continuando a condizionare con la propria visione del mondo i nostri valori e i nostri bisogni. Sono riusciti anche a scongiurare l’inevitabile avvicendamento naturalmente causato dall’invecchiamento e dal conseguente ricambio generazionale: oggi, professionalmente, socialmente e anche fisicamente, a sessantanni si è ancora “giovani”, il che condanna tutte le generazioni successive ad una eterna adolescenza, nel senso di una incessante “anticamera” in attesa del proprio turno.
Le difficoltà di accesso al lavoro e i problemi abitativi costringono i non più giovani a restare a casa dalla mamma, a non potersi assumere le responsabilità di una famiglia, a restare eterni ragazzi. Sulle cronache giornalistiche si legge di “un ragazzo di trentacinque anni che ha subito un incidente” o di “una giovane di trentotto anni che ha subito un’aggressione”…
A questi eterni adolescenti, che non sono stati capaci, in trent’anni, di innovare nemmeno il proprio vestiario, la casta dei sessantenni sessantottini impone ancora le proprie parole d’ordine, i propri gusti musicali, le proprie borse etniche e le proprie sciarpette. L’evoluzione dei costumi è durata dieci anni, dal Sessantotto al Settantasette, quando i fratelli minori dei sessantottini hanno battuto i loro piedini perché non volevano morire secondogeniti… e sono stati schiacciati, sconfitti e buttati nella discarica del nichilismo e dell’eroina, mentre i fratelli maggiori, più furbi, scoprivano la cocaina e la “Milano da bere”, egli ex di Lotta continua diventavano craxiani e poi magari berlusconiani e da lì strizzavano e strizzano ancora l’occhio ai loro compagni di scuola, di occupazione e di merende, che sono invece restati nella sinistra che sta sempre a galla.
Eppure la generazione del Sessantotto non ne ha azzeccata una: ha trasformato l’impegno in riflusso e la rivolta collettiva in affermazione individuale, la rivoluzione in arrampicata sociale, la libertà nella propria egoistica liberazione da qualsiasi limite, coercizione, responsabilità e dovere.
Questi valori, coltivati da un popolo che ha una crescita a imbuto (sempre più anziani e sempre meno bambini) tra un po’ scompariranno. E che nessuno offenda la nostra intelligenza dicendo che è colpa dei giovani degli altri continenti, che almeno hanno la capacità di tagliare gli ormeggi e partire all’avventura, di rischiare, di affrontare le difficoltà della vita e, soprattutto, sono animati da volontà di potenza e desiderio di vittoria.
L’Occidente figlio del Sessantotto è abituato che tutto deve essere facile e gli “spetta” e se le cose vanno male si corre a casa a piangere dalla mamma… Ma oggi la mamma a casa non c’è più, è una giovane donna cinquantenne impegnata nella sua carriera o in viaggio con la sua nuova compagna a scoprire nuovi orizzonti. E non c’è più neppure un Dio da pregare o da maledire. Non è colpa del giovane indù se lui per andare all’università a studiare informatica deve fare centomila chilometri, mantenersi agli studi facendo il cameriere vessato e con la colletta che fanno al paesello i suoi dodici fratelli e cinquanta cugini… Ma è per questo che diventerà il miglior programmatore d’America e toglierà il lavoro a tutti i suoi compagni biondi e ben nutriti: perché lui la vittoria se l’è sudata e ha dovuto vincere anche a nome dei suoi sessanta parenti che hanno puntato su di lui, per le trenta generazioni dei suoi avi e per la sua discendenza. Lui vince per dovere, non per diritto o perché “gli spetta”.
Un anti-’68 è quindi necessario, ma deve partire, come tutte le rivoluzioni, dall’assunzione di consapevolezza e di responsabilità. Non si può più essere l’infanzia viziata dell’Occidente, perché l’Occidente non ha più nulla da regalare. Non si può più “pretendere”, perché non c’è più nulla da ottenere, se non togliendolo con la prepotenza ad altri più bisognosi, si tratti di casa, impiego o materie prime. Tutto è cambiato e cambierà ancora…
Sveglia ragazzi, preparatevi alla traversata, come facevano i giovani greci e romani quando arrivavano alla maggiore età e il villaggio gli diventava stretto: chiedete ai vostri padri una nave, una spada e un aratro, un pugno di terra dove siete nati e andate a cercarvi un posto per fondare la vostra colonia. Fate la guerra, vincete o morite, conquistatevi il vostro diritto di stare al mondo, fondate nuove città e nuovi stirpi: basta piagnucolare, basta scodinzolare per farsi dire bravo e basta fare i ragazzi difficili e maledetti per sentirsi diversi e quindi migliori facendo il disadattato per sfuggire ai propri doveri.
Quando dite che non c’è meritocrazia, che la gente pensa solo alla carriera, che sono tutti bravi a parlare e criticare ma poi non fanno nulla e che tutto questo deve cambiare chiedetevi: “se non io chi e se non ora quando?”
E se sarete capaci di rispondere “io ed ora”, farete la rivoluzione. E se riuscirete anche ad essere “tollerante con gli altri ma intollerante con se stessi”, a non mentire, a non prendervi i meriti del lavoro degli altri ma a lavorare anche senza riconoscimenti, a fare ciò che è giusto anziché ciò che è utile (non per velleitarismo, ma per la consapevolezza che solo ciò che è giusto resta utile a lungo, mentre ciò che sembra utile ora anche se è ingiusto, non produce che un profitto effimero che domani viene spazzato dal vento) quella rivoluzione cambierà la vita dei vostri figli, non solo la vostra.
Ma dovrete farlo insieme, perché come afferma la Arendt «nella società contemporanea le forze di un singolo individuo possono bastare a costruirsi una carriera, ma non a soddisfare il bisogno elementare di vivere un’esistenza umana. Lo sforzo (…) sarebbe coronato pienamente solo nell’ambito di un'esistenza politica». E ciò che viene fatto solo per sé, davvero non vale la pena.
mercoledì 1 agosto 2007
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento