lunedì 5 novembre 2007

L'antipolitica? Tutta una bufala (di Marcello De Angelis)

di Marcello De Angelis

AREA - Mensile della Destra Sociale - Ottobre 2007
Fonte:
www.area-online.it

Solo un paio di mesi fa, ognuno era pronto a scommettere che la politica parlamentare fosse giunta alla fine. L’onda dell’antipolitica avanzava senza che nulla sembrasse poterla arginare. Dai blog alla prova di forza in piazza, con Grillo che arringava una folla di decine di migliaia. Poi, d’improvviso, la risacca. A ritmo sempre più frenetico la politica - quella sindacale e giovanile e poi quella parlamentare - ha ripreso possesso della piazza (e quindi delle prime pagine dei giornali) con numeri tali da ricondurre la mobilitazione antipolitica da “fenomeno” a “sintomo”. Lo stesso termine antipolitica, non so da chi coniato, era piuttosto inappropriato. L’antipolitica può essere il disinteresse per la politica, il qualunquismo che porta al rigetto del “tanto sono tutti uguali”, il riflusso nell’individualismo, ma certo non una mobilitazione di centinaia di migliaia di persone.
Il fenomeno per altro non è nuovo e il suo nome appropriato è antiparlamentarismo. Ogni qualvolta - e nelle democrazie accade a intervalli regolari - il parlamento si chiude su se stesso e porzioni importanti di popolazione non si sentono istituzionalmente rappresentate, si affacciano e spesso si affermano forze nuove che tentano di farsi largo tra le maglie del panorama partitico facendo leva sull’antiparlamentarismo.

Da noi l’esempio più recente è quello della Lega Nord. Gli ingredienti retorici e formali sono sempre gli stessi e si concretizzano in un attacco verso tutti i partiti, accusati di non rappresentare più gli interessi dei cittadini ma solo i propri. Se l’operazione funziona, solitamente il movimento antiparlamentare viene riassorbito nell’ambito del parlamentarismo e modera nel tempo i toni della propria arringa portando anche, a volte e nel migliore dei casi, un minimo di reale rinnovamento nelle istituzioni. Nei casi peggiori, porta solo in Parlamento degli aspiranti parlamentari che non trovavano collocazione nei partiti “tradizionali”.

La crisi di credibilità e di legittimità delle rappresentanze parlamentari è periodica e fisiologica e forse è bene che sia così, perché il Parlamento, come qualunque istituzione politica, tende naturalmente a preservare i propri assetti, e quindi una periodica ondata di contestazione è uno stimolo salutare a fare autocritica e a imporsi dei cambiamenti. Il sociologo svizzero naturalizzato italiano Robert Michels lo asseriva già negli anni Venti. Nella sua sociologia del partito politico Michels affermava, senza ideologismi, che il Parlamento è inevitabilmente il luogo naturale in cui le burocrazie dei partiti si accordano costituendo di fatto un’oligarchia. La sua critica “funzionale” del Parlamento non riconosceva alcuna differenza di valore tra un partito e l’altro dimostrando, a suo avviso con metodo scientifico, che la democrazia parlamentare non consente per sua natura di sfuggire all’inevitabile «legge ferrea dell’oligarchia» perché «chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia».

Come si vede, Sergio Rizzo e Gianantonio Stella, nel loro bestseller La casta, non si sono inventati niente. Semmai hanno trivializzato e banalizzato un discorso che ha portato altri prima di loro ad analizzare scientificamente dei meccanismi, facendo appello ad una istintiva e diffusa invidia sociale per creare un caso letterario. Spostando l’attenzione sul privilegio di un taglio di capelli gratuito o sul prezzario della mensa di Palazzo Madama, hanno allontanato ulteriormente i cittadini dall’analisi critica dei meccanismi della democrazia, macchiandosi del peggior vizio dei democratici e cioè la demagogia, che per i greci era la pratica di “educare il popolo” e nella democrazia moderna equivale invece a prenderlo per i fondelli.
Nelle democrazie parlamentari, in conclusione, o si fa parte del Parlamento o se ne sta fuori. E se si sta fuori si hanno solo due opzioni: cercare di entrarci o fare una rivoluzione che cambi radicalmente le regole. Per la seconda ci vorrebbe il consenso della maggioranza dei cittadini, che a me sembra che non ci sia affatto, anche perché gli italiani sono stati per così tanti decenni incantati con ricette utopiche o insurrezionali, da finire per convincersi che la democrazia parlamentare è il meno peggio che ci possa capitare.
Quindi chi sobilla lo scontento e il disprezzo fine a se stesso contro il Parlamento e i parlamentari dovrebbe almeno essere consapevole di dove porti un simile atteggiamento e prendersi la responsabilità delle proprie azioni. Spiegare cioè ai cittadini quali siano le vere motivazioni del suo predicare: vendere molti libri? Favorire un’insurrezione di massa? O candidarsi alle prossime elezioni per finire a far parte - finalmente! - dell’odiata casta dei privilegiati? Chi fa politica sul serio non può non essere invece consapevole che in Italia ci sono problemi serissimi, che rischiano di portare al collasso l’intero sistema-Paese e che non è certo togliendo ai parlamentari un taglio di capelli che sarà possibile scongiurarlo.

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