lunedì 26 novembre 2007

2 dicembre 2006: un anno o un secolo fa? di Annalisa Terranova

Sullo "strappo di Piazza San Babila" di Berlusconi, che ha spiazzato anche molti dei suoi, e sulla nascita del Partito delle Libertà abbiamo fino ad oggi volutamente glissare, in attesa che si schiarisca il cielo nebuloso del centrodestra.

Restiamo ancora fiduciosi che nulla è perso e che alla fine la ragione politica prevalga sul personalismo. Perchè questo è quello che vuole il popolo del centrodestra. Perchè questo è il bene dell'Italia.

Fra i tanti articoli apparsi in questi giorni in tutte le salse, fra gossip e presunti scoop, vi segnaliamo -riportandolo integralmente- l'intervento di Annalisa Terranova sulle colonne del "Secolo d'Italia" lo scorso 20 novembre.
L'articolo, dal suo inconfondibile stile lucido, netto, senza giri di parole, ci è sembrato quello che meglio rappresenta l'attuale panorama politico nazionale, ripercorrendo i principali eventi che hanno caratterizzato gli ultimi mesi dei partiti del centrodestra.


"Dal 2 dicembre 2006 al 2 dicembre 2007: un anno fa si svolse la grande manifestazione unitaria di piazza San Giovanni, oggi la ricorrenza potrebbe invece sancire l’irrimediabile fine del centrodestra, almeno così com’eravamo abituati a immaginarlo. Infatti il Cavaliere ha scelto proprio quella data, il 2 dicembre, per sancire lo scioglimento di Forza Italia e la sua rifondazione con un nuovo nome, Partito delle libertà. Un anno, quello appena trascorso, che doveva veder fiorire la federazione dei partiti della Cdl e che si chiude invece con la solitaria fuga in avanti di Berlusconi in aperta antitesi con gli alleati della Cdl e all’insegna del motto: «Chi mi ama mi segua...». Un anno che si era aperto sull’onda di una speranza collettiva: il popolo del centrodestra era più unito che mai, bastava solo qualche ritocco organizzativo per mettere in forma quella fusione di anime.
Qualcosa però, anzi troppe cose, non sono andate per il verso giusto, evidentemente. Ed è bene ripercorrere le vicende politiche che dalla piazza del 2 dicembre 2006 ci hanno portato fino ad oggi per comprendere dove nasce una lacerazione che non ha mai toccato livelli così profondi e che nulla ha a che fare con i pettegolezzi di “Striscia la notizia”. Solo chi ha memoria molto corta, infatti, o chi è in palese malafede, può attribuire agli attriti delle
ultime settimane il precipitare degli eventi nella Casa delle libertà.
Subito dopo quel grande successo di piazza del 2 dicembre 2006, infatti, la Cdl ha convintamene imboccato la strada della denuncia delle contraddizioni del governo Prodi in politica estera. Una piattaforma dalla quale si defila subito Pier Ferdinando Casini, artefice di un congresso che segna la vittoria della linea del “non moriremo berlusconiani”.
Lo stesso congresso che sancisce invece la netta sconfitta dell’ala capeggiata da Giovanardi, tenace supporter di un Udc mai emancipato dalla tutela di Arcore. In ogni caso Casini teorizza e pratica la politica delle mani libere.
Ma lui a San Giovanni non c’era. Lo smarcamento dell’Udc appare però da subito strategico e non tattico, in ogni caso tale da far ritenere che qualcosa di determinante nella Cdl è cambiato, e che lo schema del 1994 non regge più.
A San Giovanni c’era invece Gianfranco Fini, che proprio Berlusconi nomina, un mese dopo, a gennaio, come probabile successore alla leadership del centrodestra durante la cena di gala dei Telegatti. «Fini è il nome più autorevole...», ammette Berlusconi.
Fa quel nome per bruciarlo? Fa quel nome per dare il via all’investitura?
La sortita in ogni caso fa infuriare la Lega (che sulla Padania decreta il giorno dopo lo stop al dibattito con un titolo inequivocabile, “Facciamola Fini... ta”) e determina uno stop importante a quel cammino verso la federazione del centrodestra alla quale in pochi ormai credono vista la propensione di Berlusconi a risolvere i nodi politici con annunci a “telecamere spiegate” piuttosto che attraverso un dialogo alla pari con i suoi alleati.
Fu proprio Fini, del resto, ad essere infastidito dalle polemiche sulla leadership: «Il problema non si pone, io voglio discutere di politica». In ogni caso tutta An si ritrova su un punto: se partito delle libertà dev’essere, le tappe vanno scandite bene, la partecipazione dal basso dev’essere corale ed effettiva, no a imposizioni dall’alto.
Di politica Fini discute anche con l’avversario Walter Veltroni, in un faccia a faccia organizzato dalla Fondazione Nuova Italia di Gianni Alemanno che fa parlare i commentatori di “bipolarismo cortese”, approdo inevitabile di un decennio di contrapposizioni troppo urlate e spesso non immuni da derive demagogiche. La coppia Fini-Veltroni si trova d’accordo nella netta opzione per «una democrazia bipolare e dell’alternanza».
Chiaramente, Berlusconi non gradisce.
In ogni caso il leader azzurro apre la campagna elettorale per le amministrative a Genova promettendo che la federazione unitaria del centrodestra sarà cosa fatta entro la primavera.
Nei mesi successivi ferve la trattativa sulla legge elettorale, con le bozze Calderoli e Chiti che quasi si sovrappongono fino all’altolà di Amato che rimette tutto in gioco. A quel punto Gianfranco Fini decide di appoggiare senza indugi il referendum elettorale e lancia tutto il partito in una battaglia che sarà coronata da successo e che appare in piena sintonia con il bisogno del Paese di pungolare la “casta”.
All’interventismo di An si contrappone l’immobilismo di Forza Italia, che appare anche fredda rispetto all’ipotesi di una candidatura di Fini a Roma se Veltroni si decidesse a sgomberare il campo per seguire a tempo pieno i destini del Pd.
A giugno è lo stesso leader di An a tirare le somme in un’intervista su Repubblica: «Temo l’immobilismo della Cdl e Berlusconi, da un po’ di tempo, appare meno attivo». Sulle riforme e sulla legge elettorale inutilmente An cerca di convincere FI a scoprire le carte, finché sarà ancora una volta Fini a prendere in mano la situazione presentandosi ai banchetti referendari in un’inedita alleanza con Antonio Di Pietro, Mario Segni e Leoluca Orlando. «Ho chiesto a Berlusconi: se dici no ai referendum a cosa dici sì?». Ma la risposta è, ancora una volta, il silenzio. A quel punto si fa sempre più esigua la schiera di coloro che sono disposti a scommettere sul partito unico del centrodestra.
La discesa in campo di Veltroni determina uno scossone nel quadro politico: prima, tanto An quanto FI avevano parlato di “fusione a freddo” a proposito della nascita del Partito democratico, ma dopo il discorso di Veltroni al Lingotto di Torino le valutazioni si differenziano. Fini chiede alla Cdl di aggiornare il suo lessico politico dinanzi ai cambiamenti che il veltronismo introduce (a cominciare dalla fine della classica dialettica tra destra e sinistra per finire all’urgenza di sintesi nuove per dare risposte all’intero Paese e non solo a una parte di esso), Berlusconi invece insiste nel definire Veltroni un politico vecchio, un abile trasformista che vuole farsi largo tra le macerie del Pci di cui fu dirigente giovanile.
Stagnazione totale sul fronte della federazione del centrodestra. Fini si congeda dalla sua classe dirigente con un’assemblea nazionale in cui, facendo i conti con la scissione storaciana, delinea una strategia di protagonismo per la destra e annuncia una manifestazione a Roma che si concretizzerà il 13 ottobre, con la “marcia” di 500mila persone che dicono no a Prodi e sì alla sicurezza.
Se di strappo si tratta, certo non è paragonabile a quello realizzato dal Cavaliere che deposita da un notaio il simbolo del partito dei circoli delle libertà senza dire nulla a nessuno e cercando di minimizzare l’accaduto con “veline” rassicuranti del suo ufficio stampa. Berlusconi lavora per tutta l’estate al “progetto Brambilla”, immagina di tornare allo spirito del ’94 con i circoli delle libertà di una giovane imprenditrice che appare come un suo “clone”, non si cura delle lagnanze interne (da Tremonti a Brunetta passando per Cicchitto) e non batte ciglio quando su Libero Vittorio Feltri, a settembre, svela il vero intento che sta dietro alle manovre di Forza Italia: fondare un nuovo partito, mettendo gli alleati ribelli dinanzi all’evidenza di fatti già compiuti, scandendo le tappe rapidissime del nuovo soggetto (che di fatto al momento si presenta come un cambio di nome al vecchio partito) in modo da mettere a tacere sul nascere eventuali dissensi interni.
Questi sono i fatti. E sono, come sempre, la migliore risposta a chi si chiede chi e quando ha cominciato a “tradire” le aspettative del popolo del centrodestra che un anno fa aveva con entusiasmo risposto alla convocazione dei suoi leader".

Annalisa Terranova
Secolo d'Italia
20/11/2007

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