martedì 6 novembre 2007

L'unica destra plausibile (di Marcello De Angelis)


di Marcello De Angelis
Quando Gianfranco Fini - o chi altro insieme a lui - ha annunciato l’intenzione di fare una manifestazione il giorno prima delle primarie del Partito democratico, io non ero d’accordo. Temevo che il paragone dei numeri venisse a nostro sfavore e che la notizia della mobilitazione veltroniana oscurasse la nostra presenza. Quando Fini ha deciso che dovesse essere una manifestazione della sola An e in nessun modo diluita in cartelli più ampi o integrata da altre sigle, io ero preoccupato. Ritenevo che il partito fosse in una fase “di stanca” e che il solo richiamo identitario non sarebbe stato sufficiente a riempire i ranghi. Quando Fini - o chi per lui - proclamava in televisione che saremmo stati centomila, io ero sconsolato. Mi dicevo che se fossimo stati quarantamila sarebbe stato un grande successo, che si sarebbe però trasformato in fallimento paragonato ad un pronostico così eccessivamente ottimistico.


Avevo torto, su tutta la linea. In certi casi avere torto è una grande soddisfazione.


Una tale erronea valutazione però, induce a riflettere. Riflettere, ad esempio, sul fatto che la percezione della politica dei commentatori di mestiere e degli addetti ai lavori non è più adeguata e sicuramente non in sintonia con quella dei “fruitori” della politica.
Spiego meglio. La diaspora guidata da Storace, agli occhi di chi, come noi, vive il mondo della politica come un’esperienza personale, umana e quasi familiare, ha dato la sensazione di un possibile svuotamento del partito come noi lo conoscevamo. Un’esperienza triste, tutto sommato, che ci provocava amarezza e rammarico all’idea di quanti compagni di strada avremmo potuto perdere. Condizionati anche dal colloquio quotidiano con i nostri colleghi giornalisti e, in particolare, cronisti parlamentari, siamo stati influenzati dalla sensazione che An fosse statica e non comunicasse, agli aderenti come all’elettorato, l’immagine di una forza di opposizione dinamica.
A rendere ancor più cupa la nostra visione dell’attualità aveva contribuito anche il saggio di un nostro caro carissimo amico: Il passo delle oche, di Alessandro Giuli. Nel suo agile pamphlet edito da Einaudi, il giovane giornalista del Foglio, già nostro collega ad Area, cresciuto con schiena rettissima nella Fondazione Julius Evola e fieramente schierato “dalla parte sbagliata” da tre generazioni, ci raccontava, nella nostra lingua e con i nostri riferimenti, poeticamente inframmezzati dalle nostre visioni e dai nostri ricordi, che il percorso nel quale anche noi ci eravamo incamminati, per ormai un decennio, era un pellegrinaggio verso il nulla.
Era un’immagine da incubo per chi - e si tratta di molti - non ha mai conosciuto altro che la marcia nel deserto della militanza politica, attraverso età e stagioni diverse, che esigevano equipaggiamenti e abbigliamento consono al cambiamento di terreno e ai cambiamenti di clima, ma pur nella certezza di aver sempre compiuto, al meglio delle possibilità, il proprio dovere verso la nazione, la propria comunità umana e - perché no? - il proprio destino.
Erano anche convinti - alcuni di noi - di essere vieppiù meritevoli per aver presidiato i confini in cui le idee rischiavano di offuscarsi e i sacrifici vanificarsi, impedendo che ciò avvenisse a costo di un arduo e poco glorioso lavoro in cui bisognava “spalare” e costruire argini, assumersi responsabilità scomode e mettere a repentaglio la propria credibilità. Molte volte, è inutile negarlo, avendo anche difficoltà a dormire, chiedendosi quanto ancora fosse necessario subire e se non fosse più facile mandare tutto a carte quarantotto per rifugiarsi in un ruolo dove dover rispondere solo a se stessi, senza doversi fare carico di niente e nessuno, finalmente liberi nella propria torre d’avorio.
Un frastuono di piazza ci ha brutalmente risvegliato da questo romantico autocompatimento. Erano mezzo milione? Trecentomila? Centomila? La mia esperienza e capacità quasi autistica di calcolare i partecipanti a manifestazioni, convegni, concerti, mi ha fatto contare fino a sessantamila, poi ho lasciato perdere perché non riuscivo più a tenere il conto. Quindi, avevo torto. Avevo torto a temere che sfigurassimo con i numeri (inverificabili) delle primarie del Pd. Avevo torto a preoccuparmi che la mobilitazione non avrebbe ottenuto la risposta di militanti e simpatizzanti che invece si sono addirittura moltiplicati sotto i nostri occhi a mano a mano che passavano i minuti. Forse non avevo torto solo nel condividere la malinconia nostalgica di una visone aristocratica, di una minoranza separata dal mondo e orgogliosa della propria assoluta diversità, nostalgia dolcissima che stillava da ogni carattere del libro del carissimo Alessandro Giuli. Anche io piango spesso per quello che non c’è più, anche per quello che è così lontano che non so più se fosse reale o prodotto dalla mia immaginazione che nobilita e abbellisce i ricordi. E ho soprattutto nostalgia di me stesso trent’anni fa e del mondo in cui credevo di vivere.
Ma la politica non è più solo testimonianza, ma condivisione, col maggior numero di persone possibile, di un progetto e della sua realizzazione.
Quale progetto? Una nuova Italia. Per chi? Per tutti coloro che si assumano il dovere e la dignità di esserne cittadini. Secondo quali valori? Quelli del vissuto comune del popolo italiano, dotato di sfumature che si manifestano nei dibattiti dell’attualità, ma consolidato dalla vita di numerose generazioni. Chi siamo? Gli italiani. Da dove veniamo? Da qui. Dove siamo diretti? Verso la maggior gloria della nostra patria. Certo, ci è difficile smettere di giudicare le persone in base alla loro provenienza, ma siamo consapevoli che sia oggi più importante giudicare in base a dove vogliano andare.
Il passato non ci assolve dal dovere di realizzare il futuro. Aver combattuto un tempo non ci esenta dalla chiamata a combattere ogni giorno che verrà. Certo, ognuno come ritiene giusto; ognuno giudicando se stesso in base ai risultati del proprio agire.
In Italia, oggi, il concetto di destra si è espanso e quindi, per certi versi, diluito. Destre ce n’è più d’una, secondo alcuni. Per alcuni di noi, definirsi “semplicemente” di destra sembra addirittura riduttivo e angusto.
Ma se destra è riaffermazione e difesa dei valori delle tradizioni, volontà di potenza di un popolo e di una nazione, preminenza dell’interesse comune su quello individuale, riconoscimento e rispetto delle identità e pragmatismo e buonsenso nelle scelte operative, io ritengo ancora che Alleanza nazionale sia la destra più plausibile.
Quattro anni di chiacchiericcio sul partito unico non mi hanno intimorito, ma il fatto che An sia ancora qui e che sia più forte mi tranquillizza. Con tutto il rispetto, non mi sentirei a casa con una destra regionalista che brucia la bandiera italiana e mi dispiace che, anche coi voti di An, il vilipendio al Tricolore sia stato depenalizzato. Con tutta la stima, non posso fare a meno di provare disagio ascoltando alcuni passaggi di recenti discorsi di Berlusconi, dai quali sembrerebbe che, per lui, il mondo perfetto sia un mondo con un’unica grandissima e indiscussa potenza intorno alla quale tutte le nazioni debbano scodinzolare nella speranza di ottenere un osso e una carezza sulla testolina. Non avrei nemmeno sommo piacere a trovarmi in una destra che di popolare avesse solo il nome e magari solo in virtù di un riferimento a partiti che non ci sono più e ai quali nessuno dei miei ha mai appartenuto, perché aveva sì il più profondo rispetto per la Chiesa, ma riteneva anche che la maggiore realizzazione del matrimonio di Dio con la madre terra fosse la propria nazione, più bella e più amabile di qualsiasi altra cosa nel creato.
Io credo nella geopolitica, che stabilisce il destino dei popoli, e nella mistica della nazione che obbliga ognuno di noi a trascendere i limiti angusti del proprio essere individuale e della propria breve manifestazione terrena. Credo nel dovere della stirpe, che ci lega a tutte le generazioni passate e ci vincola ad assicurare un destino alle generazioni future.
Non credo in nulla che sia fuori dalla politica, perché la politica è la vita della mia nazione, e non credo a nessuno che sia fuori dalla politica o parli contro la politica, perché la politica è l’architettura della vita comune e chiunque se ne tiri fuori o la voglia indebolire è nemico del tutto perché vuole impossessarsi di una parte o vuole che una parte domini su tutte le altre.
Credo che tutti gli italiani debbano essere uniti in una grande alleanza nel nome della nazione e che solo la salvezza e la prosperità della nazione siano il discrimine che debba orientare le scelte della politica.
Mi impegno perché una tale alleanza per la nazione esista davvero e perché non venga meno alla missione dichiarata dal proprio nome.
Ma con la forza di uno è già difficile tenere insieme una vita; per costruire un destino, è necessaria la forza di molti.

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