mercoledì 19 dicembre 2007

Pace in Terra. Uomini di buona volontà cercansi.

di Marcello De Angelis

Fonte: Area - Dicembre 2007







Il 29 novembre si è svolta la giornata di solidarietà con il popolo palestinese, sancita dall’Onu e celebrata in molti Paesi del mondo con manifestazioni e conferenze. Ma gli occhi di tutti gli osservatori sono stati puntati sulla conferenza di pace in Medio Oriente convocata nel Maryland da George Bush, che sperava di portare al pubblico un risultato importante proprio in concomitanza con il giorno della solidarietà, che in molti Paesi si sarebbe trasformato in una mobilitazione contro Israele e gli Usa.
Le speranze di Bush sono state frustrate dal mancato accordo tra i rappresentanti di Israele e Palestina su un documento congiunto che rappresenterebbe una nuova road-map per affrontare i problemi più difficili, quali la definizione dei confini di uno Stato palestinese, lo status di Gerusalemme, il ritorno dei profughi palestinesi. A Bush e a Condoleeza Rice questo risultato era molto necessario per concludere il mandato, che scade nel 2008, con un risultato positivo che avesse una portata storica. Convocare una conferenza di pace negli Usa è sempre un buon colpo per le amministrazioni americane: serve innanzitutto per dimostrare di avere un “potere di convocazione” e inoltre che nessun vero contenzioso si possa risolvere senza la supervisione degli Usa. Purtroppo, nel caso del conflitto israelo-palestinese, i risultati degli accordi siglati dinanzi a un presidente statunitense hanno spesso avuto vita breve. In questo caso poi, non è detto che l’iniziativa sia pagante per l’immagine di Bush. I due attuali presidenti delle nazioni contendenti, Ehud Olmert e Abu Mazen, sono dei politici appannati e in declino. La credibilità di Olmert nel proprio Paese è minima. La maggior parte degli israeliani lo considera responsabile del fallimento dell’attacco al Libano e della mancata vittoria contro le milizie di Hezbollah e non gli perdona gli scandali sessuali. Abu Mazen, agli occhi di tutti, è un presidente dimezzato, che ha perso il controllo di una parte importante del suo territorio, ora nelle mani di Hamas, e che è tornato al potere solo grazie al sostegno americano e al placet di Israele. Gli accordi storici, quelli che hanno determinato un qualsiasi miglioramento in un conflitto che razionalmente non sembra avere possibilità di soluzione, sono stati garantiti da uomini di grande rilevanza storica e politica. Olmert e Abu Mazen non potranno mai valere come un Rabin o un Arafat e il solo tentativo mediatico di sostituire le loro figure a quelle dei loro predecessori nel presepe delle peace-talk, può solo fare danno.
Questo incontro serviva a tutti gli attori coinvolti: Bush deve cercare di uscire di scena con qualcosa di più che una interminabile guerra in Iraq, la Rice vede la sua figura fortemente danneggiata dai risultati non conseguiti dalla diplomazia statunitense e i due presidenti hanno una credibilità bassissima. È anche per questo che si è ritenuto necessario fornire l’evento anche di un pubblico adeguato, con la presenza di 50 delegazioni di osservatori, tra i quali la presenza dei siriani e l’assenza degli iraniani sono altrettanti precisi segnali. Lo scetticismo sul risultato di questa conferenza di pace è perciò molto diffuso, anche tra gli osservatori americani, che hanno preso l’abitudine di diffidare dei frettolosi annunci di “missioni compiute” da parte di Bush. C’è poi il fatto non indifferente che questo tipo di colpi mediatici vengono da noi giudicati solo in base alle reazioni dei media occidentali, vivendo nella totale ignoranza di quali siano le letture che vengono date all’iniziativa dagli altri tre quarti del mondo della comunicazione. Per tutto il mondo musulmano, ad esempio, totalmente convinto che da Bush non possa venire nulla di buono e che l’America sia né equidistante né super partes in merito alla questione mediorientale, il solo fatto che l’incontro avvenga sotto l’egida degli Usa desta diffidenza nelle intenzioni e sfiducia nel risultato. I tempi delle speranze di Camp David sono ormai lontani e alla possibilità degli americani di garantire per gli israeliani non crede più nessuno. Né Abu Mazen può realmente farsi garante del rispetto di eventuali accordi di cessate il fuoco; e l’idea israelo-americana di poter isolare Hamas a Gaza per poterla liquidare militarmente è la classica soluzione da videogioco che non sempre ha possibilità di riuscita nella vita reale. Inoltre, con un governo dell’Anp così poco legittimato, una guerra di sterminio a Gaza non si sa quali reazioni provocherebbe nell’intero mondo musulmano. Chi pensa che Hezbollah e Hamas siano solo semplici filiazioni iraniane non conosce la realtà.
Noi, in conclusione, da sempre sogniamo la fine della guerra in Terra Santa. Vorremmo che non ci fossero più stragi né massacri e vorremmo che la sofferenza lasciasse il posto alla speranza. Vorremmo la liberazione dei dodicimila prigionieri palestinesi e l’abbattimento di mura e recinzioni di filo spinato e vorremmo che gli israeliani dimenticassero la paura. Ma soprattutto riteniamo che senza pace in Medio Oriente non ci possa essere sicurezza nel Mediterraneo e che senza queste condizioni l’unione euromediterranea che Sarkozy viene a riproporre e che ha raccolto l’entusiasmo persino di un uomo fisiologicamente impossibilitato a entusiasmarsi come Romano Prodi, sia impossibile da realizzare. E un Mediterraneo crocevia di scambi culturali e commerciali è la conditio sine qua non perché l’Italia esca dalla crisi e ritorni a contare.

Per questo avremmo preferito vedere i due portavoce di Israele e Palestina stringersi la mano dinanzi ai rappresentanti dell’Europa e vorremmo soprattutto che ci fosse un’Europa forte e coesa che potesse farsi garante, come non possono fare gli americani, di una reale condivisione degli sforzi perché la pace sia durevole. L’Europa e l’Italia di questa pace non possono fare a meno e finché non si realizzerà saranno costrette a crescere a passo ridotto.

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